giovedì 6 giugno 2013

Abo(r)rigeni


Questo piccolo intervento manca appositamente di un approfondimento su un argomento complesso e si basa su conversazioni, telegiornali radiofonici e impressioni di viaggio.

Una esperienza comune che si fa attraversando tutto il nord (e anche il centro) dell’Australia, da Cairns a Broome, da Est a Ovest, passando per Darwin è quella del contatto con un disastro umano come la situazione degli aborigeni.
L’antico popolo che abitava indisturbato queste terre fino a non meno di due secoli fa, dalle caratteristiche fisonomiche miste tra i popoli dell’Africa per colore e alcuni lineamenti, tra Pigmei per la statura e altri tratti del viso,  e tra gli scheletri dei film horror per la magrezza e le gambe sottilissime, oggi è vittima di un contagio depressivo tremendo. La comunità aborigena (per quanto si tratti di numerose comunità con diverse lingue e dialetti si tende oggi, sia per l’estinzione o la scomparsa di molte di esse, sia per easy sake a parlare di un'unica comunità) è nel mondo quella che presenta, negli ultimi anni, la più alta percentuale di suicidi, superando i popoli scandinavi e i giapponesi.
Un popolo privato della propria terra e della propria identità, parassita in uno Stato totalmente assistenzialista che destina loro ogni anno milioni e milioni di dollari, come se i soldi fossero l’acqua santa per la pulizia della coscienza.
L’eccessivo assistenzialismo è, come conosciamo bene noi Italiani dalla Questione Meridionale dopo la conquista del Sud ad opera del Nord nel 1861, un’arma a doppio taglio.
Se da una parte permette di tenere a bada una intera popolazione e la propria coscienza, fornendo loro soldi per la scuola, per la sanità, per la crescita dei figli, una casa e via dicendo, dall’altra impigrisce il corpo e la mente, togliendo quella sana sete di rivalsa sociale e quella reale necessità di sostentamento che sono il motore di una riscossa popolare.
Eternamente ubriachi, seduti sotto gli alberi tutti i giorni per tutto il giorno, immobili come aeroporti di atterraggio per le mosche, magri e puzzolenti, passano la loro vita senza uno scopo, tenuti a debita distanza dai bianchi in cui ogni giorno  cresce il risentimento verso chi, pur prendendo i soldi dalle loro tasse, non fa nulla per cambiare la propria condizione.
Sembrano come quei vecchi che hanno deciso che va bene così, che la loro vita è stata abbastanza lunga e si lasciano piano piano morire in un letto, per quanto attorno abbiano figli e nipoti che allungano mani per farli rialzare. Almeno così li dipinge il telegiornale radiofonico della comunità aborigena nel WA.
A Cairns li puoi vedere lì, vagare o barcollare per le strade, oppure stare seduti in gruppo, con due stracci addosso e i piedi nudi, a fissare in silenzio i passanti, senza mai chiedere soldi, più spesso una sigaretta, con le mani appoggiate a terra all’indietro a sostegno della schiena e le gambe distese a carezzare l’erba dei giardini.
A Broome, nel centro città o nelle zone turistiche, se sembrano essercene di meno passeggiando in ChinaTown o Cable Beach durante il giorno, all’imbrunire e di notte, adesso che la stagione turistica non è ancora iniziata, sono gli unici a vagare per le strade.
Cinque bambini muovono le loro fragili ginocchia rincorrendo una bicicletta, figli di nessuno o forse di quelle madri che vedi camminare stancamente per le strade appoggiate sulla schiena a sostenere il seno pesante e la pancia.
Qualche volta tra un gruppo di giovani spunta una qualche barba bianca, e allora puoi vedere come l’età dell’uomo non cambiano la sostanziale noia di vivere e di essere che ha avvolto con una coperta di rassegnazione e pigrizia le loro anime. La speranza di vita per un aborigeno è attorno ai 50-55 anni tutt’oggi, vent’anni di meno di un australiano bianco.
Ci sono tante figure che si adoperano a livello sociale, o aborigeni che cercano un riscatto e si danno da fare, almeno per cercare di uscire da una apparenza di sfattezza totale.
A Broome, per esempio, vengono date agli aborigeni delle case dove possono abitare a patto che non le danneggino. Ubriachi fradici (nonostante i prezzi degli alcolici in Australia siano mediamente tripli op quadrupli rispetto all’Europa), tornano in quelle case e le sfasciano. Per ripararle ci sono delle agenzie che chiedono tantissimi soldi per i loro servizi (il WA e il NT sono le regioni più costose e con le più alte paghe d’Australia), e così una piccola signora che gestisce una bancarella del mercato si è presa l’incarico, assumendo un qualche backpackers per 30 dollari l’ora (immaginatevi quanto prendano le agenzie suddette), e va in giro per la città a riparare quelle case, in modo che questi uomini e le loro famiglie abbiano ancora una casa. Che poi dipende cosa si intende per famiglia.
Qui nel Kimberley alcuni aborigeni vengono usati come rangers nei vari parchi nazionali. A Bungle Bungle, da dove scrivo, ce n’è uno che dopo anni di galera ha ottenuto il lavoro. Ha 16 figli avuti da più di dieci mogli diverse di cui, come un Enrico VIII, si disfa a propria piacimento, qualcuna perché malata, qualcuna perché ne preferisce un’altra, e qualcun’altra per un diverso motivo ancora.
Questi bambini a piedi nudi rincorrevano le rane che uscivano dai gabinetti con due Ipad di ultima generazione tra le mani, in un claster tonale abbastanza stridente. Le opportunità di lavoro e di una vita benestante, quindi, ci sono davvero anche per loro. E’ che, come mi era stato detto a Rossgole quando per la prima volta ho affrontato l’argomento con un Australiano, molti non si vogliono conformare al modo di vivere dei bianchi, ma, al contempo, ne pretendono oramai alcuni privilegi come gli aiuti economici dal governo e i tanti servizi non a pagamento che a loro sono offerti.
Oggi si sta lavorando per cercare di rivalutare a livello nazionale la cultura aborigena, ma gli unici tentativi di valorizzazione fatti finora sembrano nascere più da un fattore di business che da un fattore “antropologico-sociale”, nel cercare di crearne una industria turistica che pur potendo essere utilizzata come fonte di entroiti per le comunità locali, sicuramente non è il metodo migliore per l’autostima e l’orgoglio della propria identità.

“Bisognerebbe, invece di dargli soldi, coinvolgerli in progetti, dargli un lavoro in modo che si possano riscattare, e questo è stato fatto” mi ha raccontato oggi un altro ranger bianco. “Dopo il problema che c’è stato negli anni ’50 e ’60, quelli che chiamano della stolen generation, in cui i bambini aborigeni venivano “strappati” dalle loro famiglie per farli andare a scuola e farli integrare nella società dei bianchi, il governo ha dovuto/voluto chiedere scusa e rimborsare a suon di milioni la comunità aborigena. Comunità aborigena che è ricchissima e ogni anno diventa sempre più ricca con tutti i soldi che sborsa il governo. Ma il problema è che a loro davvero non interessa integrarsi”.
“Qui nel Kimberley qualche anno fa c’era da iniziare un lavoro per la risistemazione del letto di un fiume” continua il ranger “un lavoro che sarebbe stato per una decina di anni almeno e anche ben pagato. Quando sono andato per propormi mi è stato fatto capire che praticamente avevo il colore della pelle sbagliato. Nel tentativo di dare delle motivazioni e un ruolo alle comunità aborigene locali, questo impiego era dato solo a loro. Si presentarono, presero le tute e tutti gli equipaggiamenti forniti dal governo e poi più della metà non si presentò più”.
“Che poi quello che più mi fa arrabbiare è che loro possono venire liberamente nelle nostre città, ma noi non possiamo entrare nelle loro comunità, dove loro hanno i loro negozi e le loro cose, totalmente allo sfascio. L’altro giorno ho avuto una discussione con l’altro ranger aborigeno che si lamentava per il fatto che non poteva cacciare nel Parco Nazionale, la sua terra. Io gli ho detto, se vuoi cacciare sulla tua terra fallo, ma usa l’arco e le frecce e la caccia tradizionale aborigena e non il fucile e le armi che ti sono state date dai bianchi!”

Concetto strano quello di “propria terra”, soprattutto per un popolo come quello aborigeno nella cui cultura manca un vero e proprio concetto di proprietà privata. Nell’antichità non ci si faceva tutti questi problemi. Cartaginesi, Romani, Barbari, Franchi, Sassoni, chiunque vinceva le battaglie aveva la terra e regnava su di essa. Se poi oggi giorno il mondo è diventato più politicaly correct, non può voler dire che chi perde la guerra  possa avere più privilegi di chi la vince.
E comunque osservando la situazione anche di altri esempi più contemporanei come gli Indiani d’America o i Curdi per gli aborigeni non è andata poi così male, ma è pur vero che in un mondo che accelera sempre più verso il futuro, in una nazione ambiziosa e sempre più casa di un nuovo melting pot, recuperare il proprio passato diventa ogni giorno sempre più difficile. Ma bisogna vedere quanto questo interessi.

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