sabato 27 aprile 2013

Tre personaggi che non cercano autore III


Capitano mio capitano!

Ci sono uomini che sono nati per stare in mare e niente lì può trattenere a terra. Né una moglie conosciuta romanticamente durante una “booze cruise” (pulmini “dell’allegria” che il venerdì sera fanno tappa in tutti i pub della città, riportando tutti a casa felici e vomitanti), né tre figli, né una grande farm dove soldi e tempo da spendere con la propria famiglia si erano riusciti bene a coniugare.
Mate e il Capitano sono due uomini più o meno della stessa età, ma di condizioni di vita opposte. Il primo, completamente da solo, spende più tempo in mare possibile perché a terra non ha assolutamente niente, a parte un paio di prostitute e qualche sgangherata conoscenza. Il capitano, invece, è un uomo che ha iniziato a lavorare sui pescherecci quando aveva 6 anni e per cui il “richiamo del mare” è stato più forte di qualsiasi affetto.
Di storie sui cinque anni di farm lontano dall’oceano, però, ne raccontava spesso, molto spesso ripetendosi, e parlavano di tori scatenati “innamorati” di mucche di proprietà lontane che saltavano le recinzioni per andare a copulare con la propria bella o di parti dolorosi di vitelli e di operazioni chirurgiche improvvisate per rimettere dentro il corpo l’utero di mucche completamente penzolante all’esterno di una vagina slabbrata. A volte sembrava che un po’ gli mancasse.
La corporatura grassoccia non gli impediva una certa agilità, ma dopo anni di esperienza era testimone di una certa pigrizia dovuta al proprio ruolo. L’unico lavoro che faceva durante la notte era quello di sollevare le reti, controllare che tutto funzionasse, e all’occorrenza cucinare i king pranws nel forno. Nelle notti da 800 kg, seduto sulla superconfortevole sedia di comando, aiutava compilando scatole, ma senza mai fold them up (il termine in italiano proprio non mi viene).
Durante gli unload si assentava, chiacchierando con il capitano della Barge, amico di vecchia data, durante i suoi turni di guida spesso,  stava comodamente in branda ascoltando musica o guardando qualche film, lasciando fare tutto al pilota automatico.
 All’inizio di ogni shot, però, scendeva la piccola scala metallica per venire a vedere che cosa le reti avessero appena versato sul tavolone. In fondo ai suoi occhioni allora si poteva leggere nel disappunto o nella gioia la speranza e la determinazione di un uomo che aveva un vero motivo per voler guadagnare tanti soldi e che aveva quel motivo sempre nel cuore ogni volta che le reti scomparivano inghiottite dalla superficie dell’oceano.
Ignorante accademicamente parlando, se la cavava egregiamente in tutte le cose pratiche, che poi è tutto ciò che conta su una nave e molto spesso nella vita in generale. Sapeva sempre dove andare a toccare, come riparare, cosa e come legare, come far fronte a tutte le situazioni che gli si presentavano, dai guasti al motore ai guasti al cervello del proprio secondo in comando.
Non credeva in Dio, per lui c’erano abbastanza fatti nel mondo che provavano la sua inesistenza, e il suo non interesse religioso si esprimeva nella gran parte dei suoi jokes sul mondo della “ Poco Santa” Chiesa Cattolica, che qui in Australia è alle prese, un po’ come in tutto il mondo, con lo scandalo pedofilia.
A continue battute sul tema chiesa e sesso, come “Il nuovo papa ha dato una festa per la sua elezione e ha invitato tanti bambini per dagli la “benedizione”!” (sicuramente una delle più leggere) si intrecciavano idee strampalate sul fatto che le famiglie cattoliche avessero tanti figli perché la Chiesa manipolava le menti dei fedeli, secondo un piano diabolico per avere sempre un maggior numero di adepti.
Di teorie strane e discutibili Capitano ne aveva parecchie. Come quella per cui, secondo lui, per garantire la sicurezza ovunque nel mondo, ognuno avrebbe dovuto avere una pistola. “Se tutti avessero una pistola, nessuno sarebbe più forte, tutti avrebbero paura di sparare per il timore di essere colpiti a loro volta, e non succederebbero più le stragi causate da malati di mente, come in America, perché lo ammazzerebbero prima quel cunt!”
O come quella per cui l’Australia avrebbe sconfitto pesantemente l’Italia nella seconda guerra mondiale, amplificando la partecipazione di quattro soldati messi in croce allo Sbarco in Sicilia e l’affondamento di un paio di navi in una vittoria schiacciante che testimonia la superiorità della nazione australiana su quella italica e non solo (perfettamente nello stampo di un arrogante orgoglio patriottico tipico da queste parti, che nei soggetti più ignoranti come Mate, sfocia ancora in un velato razzismo).
All’esposizione di queste teorie non si poteva far altro che annuire per non scatenare inutili discussioni infinite in cui il pazzo del villaggio, pur di farsi vedere fedele servitore, iniziava ad urlare insulti conditi da commenti palesemente fuori luogo, Decky assumeva la solita aria saccente e iniziava a usare paroloni accademici che finivano per irritare Capitano che si alzava dalla tavola scuotendo la testa borbottando “Spero che prima di entrare in marina imparerai a smettere di essere uno smart ass, altrimenti non avrei sicuramente vita facile!
Decky, infatti, era alle prese con l’ammissione per entrare nella NAVY australiana come linguistic, adetto all’intercettazione e alla decifrazione di codici, probabilmente spinto dalla vergogna di non voler deludere la propria madre, in quanto ogni volta che parlava della sua scelta appariva come obbligato e abbassava la testa, iniziando a masticare nervosamente il piccolo uncino di metallo che teneva sempre in bocca, in una compulsiva pulizia dei denti.
A riguardo c’era stata un’altra puntata della infinita lotta con Mate che una sera, sempre durante il maledetto primo shot, l’aveva sparata troppo grossa, dicendo che suo cugino lavorava nella dipartimento di ammissioni della marina e che avrebbe fatto una telefonata per impedire l’ammissione di Decky. Io mi sono riuscito a trattenere, ma lui gli è scoppiato a ridere in faccia. Risultato: Mate ha smesso di lavorare e in una scena abbastanza pietosa si è seduto sulla sua sedia (c’erano due sedie di plastica sul deck della Angelina Star ed erano tutte e due sue e secondo lui nessuno a parte lui ci si poteva sedere) e ha iniziato a digitare numeri a caso sul suo cellulare, chiamate a cui ovviamente nessuno potvea rispondere.
Capitano scuoteva la testa, ormai rassegnato soprattutto dopo l’episodio della conchiglia che lo aveva fatto andare veramente in bestia. “You don’t listen! Ora dovrei venire lì e spaccarti il muso, ma non posso farlo, perché i tempi sono cambiati. Se avessi fatto una cosa del genere al mio capitano, una volta, mi sarei ritrovato overboard, speditoci a calci nel sedere!”.

Una cosa per cui si arrabbiava tantissimo Capitano era la pulizia del deck della mattina.
Un lavoro lunghissimo, reso difficile da una superficie considerevole e da diversi angoli quasi impossibili da vedere e da raggiungere con la canna dell’acqua. Il solo esserci sul deck o in un cesto di una piccola zampetta di gambero era sufficiente in alcune giornate per essere richiamati e non importava quanto accurati fossimo, quanta attenzione ci mettessimo, quanti angoli spulciassimo, lui riusciva sempre a trovare quel qualcosina che noi avevamo dimenticato. Era sempre una battaglia persa.
La pulizia del deck, e di tutte le cose usate durante la notte, è vero, è di grande importanza se non si vuole che la barca puzzi di pesce morto soprattutto quando, cosa ancora inspiegabile, si è invasi dalle mosche. Mosche in mezzo al mare! In anni e anni anche Capitano diceva che era la prima volta che aveva un problema del genere.

In compenso, però, Capitano era l’unica persona con cui si poteva respirare un po’ di tranquillità.
Era il mio turno di lavare i piatti, ma il tramonto di quella sera era così incantevole che mi aveva paralizzato a prua, in totale contemplazione.
“Ei, vieni giù a pulire che poi io devo andare a letto e non voglio sentire rumori!” era la voce gracchiante di Mate che, come al solito, veniva a rompere le scatole.
“Ma lascia perdere! Vieni qui che ti faccio una foto!” e presa la macchina fotografica abbiamo speso mezz’ora a cercare di fare una foto decente e a parlare dei tramonti di Darwin, quando i contadini bruciano la terra e spargono i concimi, e le nuvole nere sembrano scaturire dalle fiamme del cielo invece che dalla terra. Porto con me conversazioni davvero belle e istruttive con Capitano, tanto che verso gli ultimi giorni pregavo Decky di avere il primo riposo al posto mio, perché ciò avrebbe voluto dire lavorare con lui e farsi raccontare un po’ di storie e finalmente imparare tutte quelle cose che Mate preso dalla sua ansia, non poteva insegnarmi.
E a proposito di insegnamento che Capitano tirò fuori finalmente una teoria valida: la scuola al giorno d’oggi è troppo accademica e troppo poco pratica e gli studenti che vi escono sono degli ignoranti pazzeschi nelle cose importanti nella vita: “dovrebbero insegnare come aggiustare una macchina, come cucinare, come usare i vari attrezzi, come riparare, come montare una presa elettrica o smontare un tubo, insomma come far fronte ai vari problemi pratici della vita di ogni giorno. Quella è la vera cultura”.
Come dargli torto, su quella nave la mia laurea in Lettere, i 9, i 10, i 30 erano solo carte straccia che non mi erano assolutamente d’aiuto anzi, mi facevano sentire ancora più palesemente ignorante, non avendo mai abituato le mani e il cervello a pensare sotto sforzi fisici e a cercare soluzioni per rendere più facili lavori altrimenti faticosi e impossibili da svolgere, anche banali, come tranciare una catena metallica.

Una volta, mentre stava manovrando con la carrucola per aissare le reti da pesca, Capitano mi disse “portami un pesciolino”.
La corda sembrava avvolgersi sul cilindro rotante della carrucola in maniera dolce, senza alcun segno di tensione, una macchina che all’occhio di un ragazzo inesperto come me appariva assolutamente innocua.
“Ora guarda cosa succede a questo pesciolino”.
E mise il piccolo pesce sulla superficie del cilindro. La corda si avvolse lentamente sopra e come nulla fosse, senza essere per nulla disturbata nel movimento, tranciò di netto il povero animale davanti ai miei occhi abbastanza increduli e scioccati.
“Ora la stessa cosa succede se metti le tue dita nel posto sbagliato. Avrei potuto dirti di non mettere le mani lì, ma tu non avresti compreso allo stesso modo la pericolosità che quel gesto comporta”.

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